No, Coinbase non è stata coinvolta nel mirabolante recupero del riscatto pagato per la Colonial Pipeline. Una notizia che aveva fatto ieri il giro del mondo (e che è stata da noi subito smentita) che ora è finalmente ufficiale, grazie all’intervento del CSO della compagnia, Philip Martin, via Twitter.
Nel mezzo una spy story, che la stampa tradizionale (e qualche collega poco attento) hanno raccontato infarcendola di dettagli che poi si sono rivelati supposizioni, che ad un certo punto avevano anche messo in dubbio la tenuta del protocollo di Bitcoin.
Niente di tutto questo – e anche il FUD contro Coinbase è stato finalmente rispedito al mittente, in uno dei più grandi fallimenti recenti della stampa che prova a parlare di Bitcoin a caccia di qualche click. Situazione non nuova, ma che merita di essere raccontata per come è andata.
L’antefatto è circolato su tutti i principali giornali del mondo. Colonial Pipeline, una delle infrastrutture private critiche per gli USA, è stata bloccata a causa di un attacco ransomware. La situazione si è sbloccata dopo un sostanzioso pagamento da parte della società a favore degli hacker, utilizzando appunto Bitcoin.
Scelta piuttosto infelice, perché il protocollo di Bitcoin, per design, permette con un certo agio di ricostruire le transazioni. Coinbase è stato il nome che è circolato in modo più consistente, con diverse accuse anche da parte degli appassionati di BTC, che indicavano come il popolare exchange avrebbe collaborato con i federali (cosa che tra le altre cose, per una società di questo tipo, è obbligatoria) fornendo le key del wallet che comunque non apparteneva a loro. Una situazione che in realtà è stata smentita proprio da Philip Martin, con una lunghissima serie di Tweet.
Ho letto diverse accuse scorrette verso Coinbase, che è stata accusata di essere coinvolta nel recupero, da parte del Dipartimento di Giustizia, dei Bitcoin associati con l’attacco ransomware della Colonial Pipeline. Non siamo stati coinvolti. Coinbase non è stata la destinataria dell’ordine di sequestro e non ha ricevuto, in tutto o in parte, i token che facevano parte del riscatto, in nessun momento della storia. Non abbiamo inoltre alcuna prova del fatto che i fondi siano transitati per un wallet di Coinbase. […] Potete fidarvi di me, o dell’agente che ha redatto l’affidavit (che è sotto giuramento). Le chiavi private del soggetto dell’ordinanza sono in possesso dell’FBI. Inoltre Coinbase usa un wallet pooled. Quindi dare via una chiave singola non avrebbe molto senso. E non abbiamo una modalità di export delle chiavi, per motivi di sicurezza.
Le dure accuse nei confronti del gruppo sono dunque ora da escludersi, e da bollarsi come l’ennesima fantasia nata nella rete e riportata, senza alcuna verifica, da parte di giornali e blog, che in cambio di qualche click continuano a sparare nel mucchio.
Rimane il fatto che molti dei dettagli dell’operazione rimangono per il momento oscuri, come fa notare lo stesso Philip Martin. Dettagli che con ogni probabilità emergeranno in futuro, magari durante la fase processuale.
Come hanno fatto a trovare le private key? Magari qualche trucco di magia, anche se la mia opinione è che sia stata un’operazione di polizia in vecchio stile per localizzare i server – utilizzando poi un ordine MLAT o pressioni politiche per avere accesso.
Una storia molto appassionante, perché conferma, se ce ne fosse ancora il bisogno, che il protocollo di Bitcoin è ad oggi inattaccabile. Al contrario di quanto avevano raccontato giornali che, forse, farebbero bene a tacere quando si parla di BTC.
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