Dogecoin non ha fatto soltanto la fortuna dei tanti che avevano investito quando il coin valeva una frazione del suo prezzo attuale. Anche Robinhood, intermediario che si sta preparando alla quotazione in borsa, deve una parte rilevante delle proprie fortune al meme token.
Una notizia che è stata diffusa proprio dal gruppo, che ha dovuto preparare un form S-1 per SEC, necessario per procedere con le operazioni di quotazione in borsa. Con il gruppo che ammette candidamente che parte dei suoi enormi profitti degli ultimi mesi sono dovuti alla corsa del pubblico verso DOGE.
Una crescita che il gruppo vuole capitalizzare, ammettendo però al tempo stesso che l’ingresso di altri intermediari potrebbe sottrargliene una fetta consistente, a detrimento delle sue operazioni. Una notizia che, sebbene di carattere strettamente finanziario, in realtà ci racconta molto del mondo di Dogecoin – che in molti (sbagliando) faticano ancora a prendere sul serio. Cosa che francamente non capiamo, dato che tutti i principali intermediari si sono affannati per inserire a listino una criptovaluta dalla rilevanza finanziaria enorme.
Cosa che è dimostrata anche dalla quotazione presso eToro (qui per un conto dimostrativo gratuito per sempre), che ha già inserito DOGE tra le 26 criptovalute offerte a listino, e sul quale possiamo investire anche con i servizi esclusivi di CopyPortfolios – per panieri di cripto in un solo titolo – e di CopyTrading – per chi vuole copiare i migliori trader della piattaforma oppure spiare nelle loro operazioni o nei loro portafogli.
Le autorità che regolano i mercati finanziari negli Stati Uniti vogliono ovviamente vederci chiaro. Tra i documenti che devono essere condivisi ci sono anche quelli che stabiliscono le fonti degli enormi profitti di questo intermediario. E Dogecoin, stando a quanto diffuso tramite questi documenti, è una parte estremamente rilevante dell’intero monte guadagni del gruppo.
Nel complesso il 17% dei profitti generati dalla piattaforma sono arrivati dal comparto criptovalute, e in questo comparto Dogecoin è valso 1/3 del totale. Una somma molto importante per il gruppo, che però avvisa che potrebbe non essere più disponibile per il futuro.
Ci sono infatti, sempre secondo quanto diffuso dal gruppo, due diverse incognite per gli investitori. Da un lato la domanda di scambi su Dogecoin, che con il token che sta vivendo una fase di relativo stallo, potrebbe calare. Dall’altro anche il valore stesso del token, che se non dovesse riprendere a crescere, potrebbe causare una perdita complessiva di capitale per il gruppo.
Inoltre l’arrivo sul mercato di altri intermediari – a nostro avviso anche più competitivi – come appunto eToro – rischiano di erodere la posizione semi-dominante che Robinhood aveva ottenuto sul mercato. Pertanto potremmo considerare lo scorso trimestre di Robinhood come un picco che il gruppo difficilmente sarà in grado di ripetere.
Significa chiaramente che DOGE non più soltanto un meme token. O meglio, significa che in realtà gli interessi economici che vi ruotano intorno sono, in determinati contesti, superiori a quelli che ruotano intorno a Bitcoin e anche ad Ethereum, almeno per gli intermediari.
Un buon segno per una criptovaluta che, forse più delle altre, tende a vivere di cicli. In molti continuano, con cadenza settimanale, a celebrare funerali di un progetto che è vivo e vegeto sin dal 2013 – e che potrebbe continuare ad essere estremamente rilevante all’interno del mondo delle criptovalute. Dopotutto non si rimane per così tanto tempo all’interno delle prime 10 criptovalute per marketcap per caso. E la riduzione dell’impatto che può avere Elon Musk con i suoi tweet non potrà che fare del bene all’intero ecosistema.
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