Il 2018 non è stato di certo un anno semplice per le criptovalute: sappiamo bene che i picchi raggiunti alla fine dell’anno scorso non sono più stati eguagliati, almeno per il momento. Eppure c’è una nazione in cui Bitcoin è sempre più richiesto, molto più di quanto ciò non avvenisse nel 2017: stiamo parlando della Corea del Nord, vittima dello strapotere del dittatore Kim Jong-Un. Il divieto di intrattenere rapporti commerciali con gli Stati Uniti, presto seguito da bandi analoghi in quasi tutte le nazioni del mondo, viene aggirato dal regime proprio usando le criptovalute come strumento di pagamento.
Abbiamo parlato già in passato di come la dittatura nordcoreana stia facendo liberamente i propri interessi grazie alle criptovalute. Questa volta, però, le parole di due luminari dell’economia decentralizzata ci aiutano a comprendere meglio le dinamiche e le dimensioni di questo fenomeno.
A parlare ai microfoni dell’Asia Times sono stati Lourdes Miranda e Ross Delston. Il primo è un investigatore di crimini finanziari con specifici compiti nell’analisi e raccolta di dati dell’intelligence, il secondo ha trascorso la sua carriera a combattere gli strumenti tramite i quali le organizzazioni terroristiche finanziano le proprie attività.
Le parole dei due esperti hanno analizzato la situazione da vari punti di vista e concordano nel dire che grazie alle criptovalute sia più facile per la Corea del Nord aggirare le sanzioni commerciali di quanto non lo sia mai stato in passato. Aggiungono che ci riescono mischiando e cambiando gli exchange utilizzati di volta in volta, con complesse operazioni di riciclo finanziario, per sfruttare le istituzioni finanziarie che hanno relazioni interbancarie con gli Stati Uniti. In poche parole, gli uomini di Kim Jong-Un complicano il tracciamento del denaro finché non riescono a trasformare le criptovalute (per la maggior parte ottenute tramite attacchi informatici) in dollari americani. Con quelli, poi, possono condurre affari mediati dalla Cina e dalla Russia un po’con tutto il resto del mondo.
Non solo Bitcoin, ma anche Ethereum e un po’a sorpresa molti Monero. Queste sono le riserve di criptovalute nordcoreane, che secondo Miranda e Delston aumentano costantemente con volumi d’affari giornalieri compresi tra i 15 ed i 200 milioni di dollari americani. Tutto questo senza lasciare traccia, a parte per qualche attacco informatico che è stato ricondotto con certezza alla DPRK. Questi sembrano essere proprio il modo con cui l’approvvigionamento avviene di più: tutti gli appassionati di criptovalute ricorderanno bene quel che accadde a maggio con l’attacco informatico WannaCry su scala mondiale.
Oltre agli attacchi informatici, anche il mining sembra un’attività svolta su vasta scala per ordine del regime comunista. Questo pare davvero singolare: notoriamente minare Bitcoin e Monero richiede molta energia elettrica, una delle risorse più scarse in Corea del Nord. Forse è per questo che Ethereum, funzionando tramite protocollo proof-of-stake (con richiesta di corrente decisamente inferiore) sembra essere tra le valute decentralizzate più utilizzate dal regime.
Le dichiarazioni dei due esperti hanno fatto più luce su una questione che viene già discussa da tempo all’interno della community delle criptovalute. Si spera che, nei prossimi mesi, da queste dichiarazioni nascano indagini più approfondite e fruttuose per fermare questo modo di raggirare le sanzioni internazionali.
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