Il Fondo Sovrano dell’Oman ha investito in mining Bitcoin, o meglio, in Crusoe, società che si occupa appunto di operare macchine ASIC per mettere in sicurezza la rete di $BTC.
Una notizia che avrà dei risvolti anche per quanto riguarda l’impatto sull’ambiente del mining, quello che rimane uno dei temi caldi del mondo Bitcoin. Con un colpo duro assestato proprio dal Fondo Sovrano dell’Oman alle polemiche di stampo ambientalista che spesso non hanno alcun fondo di verità al loro interno.
In parole povere, Crusoe, società con sede a Denver negli USA, aprirà delle infrastrutture per il mining in Oman e finirà per utilizzare il gas che finirebbe nel flaring. Operazione che come è noto permetterà anche di ridurre l’impatto che hanno sull’ambiente le operazioni di estrazione del petrolio. Una mossa a sorpresa, che parte con un investimento e che potrebbe spostare una quantità interessante di operazioni di mining proprio in Medio Oriente.
Una mossa che potrebbe indicare quale sarà una delle vie per combattere questo tipo di attacchi verso la rete di Bitcoin, come quello di Greenpeace del quale abbiamo parlato nelle ultime settimane. Ma vediamo insieme cosa succede e come potrà cambiare lo scenario legato al mondo del mining grazie a questo accordo.
La prima delle notizie interessanti che arrivano dall’Oman è l’impegno finanziario del piccolo ma ricco paese nel mining Bitcoin. Il fondo sovrano avrebbe infatti partecipato al round di finanziamenti di aprile a favore, appunto, di Crusoe, società americana che si occupa di mining anche con il recupero di quanto andrebbe disperso con il gas flaring.
Benché non siano chiari i termini e le proporzioni del finanziamento, dovrebbe trattarsi in realtà di una somma sostanziosa, dato che Crusoe aprirà una sede nel paese e, con tempi ancora non chiari, attiverà anche operazioni di mining, sfruttando appunto quel gas che andrebbe altrimenti disperso.
Un passo in avanti importante non solo per Crusoe, ma anche per l’Oman, che sta cercando disperatamente di rispettare i limiti imposti dall’Accordo sul Clima di Parigi. Cosa che potrà fare più facilmente se le operazioni di mining condotte nel paese dovessero essere effettivamente di proporzioni importanti.
Qualcosa di cui avevamo avuto modo di parlare anche con Federico Rivi, in concomitanza del recente attacco organizzato da Greenpeace (e probabilmente da altri interessati ad un’eventuale fallimento di Bitcoin).
Litanie ecologiste che dovrebbero essere prese sicuramente sul serio, a patto però che abbiano da contestare qualcosa di concreto a Bitcoin e al suo mining. Non è il caso della campagna Change the Code, not the Climate di Greenpeace, che invece di spingere per l’adozione più diffusa da parte dei miner di energia proveniente da fonti rinnovabili, ha ben deciso di proporre un assurdo passaggio a PoS, passaggio che segnerebbe la fine incontrovertibile di Bitcoin.
Come presupponevamo soltanto qualche tempo fa, i miner avrebbero fatto per conto loro, sempre alla ricerca di energia più economica. Passaggi che però ci aspettavamo soltanto sul medio e lungo periodo e che invece procedono a ritmo sostenuto già oggi. Cosa che forse infastidirà, aggiungiamo noi, coloro i quali avrebbero preferito l’annientamento di Bitcoin invece la soluzione di quello che, a loro avviso, sarebbe il suo problema principale.
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