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Consenso Bitcoin in mano a pochi | FUD di Change the Code e Greenpeace

2 anni fa
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Lungo approfondimento su Coindesk, che torna sulla questione di Change the Code, Not the Climate, iniziativa guidata da Greenpeace e che punta, come abbiamo già detto, a trasformare Bitcoin in un network con consenso in Proof of Stake.

Progetto ambizioso, direbbe qualcuno non senza una certa nota canzonatoria. Progetto impossibile, diciamo noi, anche se i leader della proposta si dicono ancora, a 2 mesi dall’avvio dell’iniziativa che ha esattamente zero trazione nella community, sembrerebbero essere certi di potercela fare.

Nel mentre i blocchi di Bitcoin continuano ad essere prodotti, il network funziona come sempre e di possibilità di vederlo bandito ce ne sono pochissime, forse zero, anzi, sicuramente zero su scala mondiale. E possiamo investirci con Capital.comvai qui per ottenere un conto di prova gratuito con 100.000$ di capitale virtuale – che offre accesso a $BTC con strumenti puramente finanziari.

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Change The Code non molla: ecco perché secondo i leader del progetto potrebbero farcela a cambiare Bitcoin

La situazione è la seguente: la campagna Change the Code, not the Climate è partita con una relativa pompa magna qualche settimana fa, ha ottenuto trazione praticamente zero, nonostante fondi già importanti, ma i leader dell’iniziativa sembrerebbero non essere ancora pronti a mollare.

Ancora un attacco alla decentralizzazione

Sono infatti intervenuti in diversi, segnando quale sarà il percorso che andranno a tentare per cambiare sempre Bitcoin, a nostro avviso senza aver però completamente compreso il funzionamento di Bitcoin e del consenso per eventuali aggiornamenti, soprattutto se di questo tipo. Ma andiamo con ordine.

  • Rolf Skar: “è possibile cambiare”

La testimonianza forse più interessante è quella di Rolf Skar, che è manager degli special projects da Greenpeace USA, che si è dimostrato molto ottimista riguardo la possibilità di cambiamenti, anche radicali, per il network di Bitcoin e per il suo funzionamento. Il riferimento che ha fatto è all’introduzione passata di SegWit:

Dimostra, in modo piuttosto ovvio, che i cambiamenti sono tecnicamente possibili. Altro paio di maniche è avere supporto sufficiente affinché siano adottati.

Aggiungendo poi che nonostante lo scetticismo chi sta conducendo la campagna non vede impedimenti a raggiungere un consenso maggioritario. La risposta gliela diamo noi: Bitcoin in PoS non sarà più Bitcoin e non sarebbe neanche lontanamente possibile immaginare un vasto consenso intorno ad un cambiamento del genere, sicuramente più epocale di SegWit, da parte di una community che fortunatamente, al contrario di quanto si va raccontando in giro, studia, comprende e capisce l’importanza di rimanere in PoW.

Non è questa però l’opinione più assurda, almeno a nostro avviso, che è stata raccolta da Coindesk. È intervenuto anche Ken Cook, fondatore e CEO di EWG, che ha raccontato di un mondo Bitcoin decisamente cambiato, soprattutto in termini di consenso, con quest’ultimo che sarebbe diventato concentrato al punto tale da non poter essere neanche lontanamente comparato a come era qualche anno fa.

  • Ken Cook: “la democrazia originaria è ormai andata

Ken Cook non la tocca piano e prova ad insinuare dubbi all’interno del mondo della community dei bitcoiner con strategie comunicative che sembrano essere simili a quelle applicate in guerra. Ovvero insinuare che il nemico sia ormai dentro, che non ci si possa fidare di nessuno e che la realtà davanti ai nostri occhi sia in realtà un complesso sistema di fumo e specchi.

Il top 50% dei miner controllano quasi la totalità della capacità di mining. Il top 10% controlla il 90% e lo 0,1% controlla vicino al 50%, ovvero 55-60 miner controllano quasi la metà della capacità di mining di Bitcoin.

Anche se non crede, aggiunge Coindesk, che basterà convincere 50 persone per cambiare per sempre Bitcoin (cosa che in realtà era stata detta dai leader della campagna Change the Code, not the Climate), Cook ritiene che i leader della community potrebbero aiutare a far partire uno scambio di idee che porterà, alla fine, ai cambiamenti necessari.

Anche qui, passateci il termine forte, follia totale. Non conosciamo anche soltanto uno dei leader, se così vogliamo chiamarli, della community, che sia favorevole ad un passaggio del genere. E quindi quello di Cook ci sembra un wishful thinking che, ad ogni modo, difficilmente troverà appoggio da chicchessia.

Altra questione quella dell’effettivo controllo del consenso all’interno di Bitcoin. Anche se la questione meriterebbe ben altri approfondimenti, possiamo già dirvi che no, non sono i miner a decidere quale direzione prenderà Bitcoin. Sebbene un’eccessiva centralizzazione della potenza di calcolo sia comunque qualcosa di cui discutere, non sono loro a decidere se implementare o meno una certa novità, in particolare se di queste proporzioni.

Coindesk ricorda giustamente le blocksize wars

Nelle quali fu tra le altre cose coinvolta indirettamente tramite la società che ne controlla la proprietà. Un breve excursus per chi non era ancora nel mondo Bitcoin ai tempi. Circa l’85% dei miner sembravano essere d’accordo sull’aumento della taglia dei blocchi fino a 2mb. Ovvero quasi 9 su 10. Se dovesse tenere il paradigma di Cook, si sarebbe passati a blocchi più grandi senza colpo ferire.

E invece la storia ci racconta che ad un certo punto i miner si fecero indietro, qualche propositore del passaggio creò Bitcoin Cash e Bitcoin continuò poi per la sua strada, rimanendo il network monetario decentralizzato più importante del mondo. Qualcosa che anche Cook sa, e che ha commentato in modo, ancora una volta, piuttosto assurdo a nostro modo di vedere le cose.

Cinque anni sono un periodo lungo nella relativamente corta storia di Bitcoin. Le cose sono diverse, ci sono nuove problematiche. Per ora la decisione di ridurre l’elettricità utilizzata dalla Proof of Work è nelle mani della community. Ma solo per il momento. I regolatori non staranno con le mani in mano mentre la crisi climatica cresce di portata e le valute digitali come bitcoin utilizzano sempre più energia e producono sempre più gas serra.

Dichiarazione di notevole spessore, perché riesce ad inanellare diversi errori sul funzionamento del mining di Bitcoin. Non è vero che le emissioni di gas serra dovute a Bitcoin stanno crescendo. Al contrario invece l’utilizzo di fonti rinnovabili è sempre maggiore. E non è vero che gli stati saranno in grado di bloccarlo, basti guardare alla Cina e a cosa ha ottenuto con il suo ban del mining.

Torniamo a ribadire la nostra: un attacco completamente strumentale

C’è poco di cui discutere: l’attacco della campagna Change the Code non ha nulla a che vedere con legittime preoccupazioni per l’ambiente. È un attacco strumentale che vuole distruggere il cuore di Bitcoin, quanto gli permette di essere diverso da tutto il resto del comparto e quanto gli permette di essere una delle poche speranze che si hanno al mondo di cambiare come funziona effettivamente la moneta.

Non si vuole attaccare, lo scriviamo nero su bianco, il consumo di energia elettrica e le eventuali emissioni. Si vuole attaccare, ed è particolarmente chiaro per chi sa leggere tra le righe, la decentralizzazione e l’indipendenza di Bitcoin. Qualcosa che ai centralizzatori sembra proprio non poter andare giù. Con una piccola nota prima di salutarci: ma chi sta impedendo a EWG e Greenpeace di fare un fork e vedere quante persone li seguiranno?

Gianluca Grossi

Caporedattore ed analista economico. È divulgatore per blockchain, Bitcoin e criptovalute in generale. Solida formazione tecnica, si occupa del comparto dal 2015. Detenzioni: Bitcoin, Ethereum.

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