In Russia si mina anche in prigione. Nel più antico istituto penitenziario dell’ex Unione sovietica sono state scoperte macchine in funzione, collegate abusivamente alla rete elettrica. Indagato un funzionario della prigione, oltre alla sua rete di complici le cui identità non sono state rese note.
I miners avrebbero installato la farm a novembre 2021, con le operazioni di estrazioni che sarebbero iniziate a febbraio di quest’anno. Dall’avvio delle attività la cripto-gang avrebbe utilizzato circa 8.400 KWh di energia elettrica, senza però corrispondere il dovuto in bolletta. L’illecito sarebbe quantificabile in oltre 62.000 rubli, corrispondenti a meno di 1.000 € al cambio attuale.
In carcere sì, ma con il mining su BTC!
Ultimamente in Russia ne succedono un po’ di tutti i colori. Prima l’operazione militare speciale contro i nazisti dell’Illinois che è costata all’ex impero sovietico il ban da parte di quasi tutta la finanza occidentale, poi il sostegno dei principali exchange verso le popolazioni ucraine, per finire col direttore della prigione che mina Bitcoin senza pagare la bolletta.
Siamo nel distretto di Tverskoy, e l’istituto in questione è la più antica struttura detentiva su suolo russo, edificata nel 1771 e a quanto pare ancora operativa. O perlomeno, alcuni reparti ancora sono in piena attività. Uno di questi in particolare ospita macchine da mining, installate nel novembre dello scorso anno e operative a partire da febbraio 2022.
A capo dell’operazione ci sarebbe il deputy dell’istituto penitenziario in questione, a capo di un’organizzazione più ramificata, di cui però non abbiamo altre notizie. Interessante invece qualche dato di carattere squisitamente tecnico, che riportiamo di seguito per onor di cronaca.
Le macchine avrebbero funzionato per pochi mesi e in maniera del tutto illegale: al momento della scoperta da parte delle forze di Polizia, la farm avrebbe consumato poco meno di 8.400 KWh di energia.
La cripto-gang aveva allacciato abusivamente le macchine alla rete elettrica, accumulando un debito nei confronti del gestore quantificabile in 62.000 rubli o poco più. Al cambio di oggi, la somma non arriva a toccare a 1.000 €. Gli impianti, manco a dirlo, sono stati installati nei locali della sezione psichiatrica dell’istituto. Cose da pazzi, soprattutto considerando i potenziali ricavi.
Il mining fa gola, anche contra legem
La notizia rappresenterebbe la punta di un iceberg di dimensioni neppure troppo generose: i raid contro le cripto-farm si sono susseguiti in tutto il Paese, portando alla luce oltre 1.500 installazioni analoghe a quella di Butyrka, questo il nome della prigione.
Se l’iceberg non sembra così piccolo, basti pensare a quanto fatto dalla Cina che col suo ban dello scorso anno fece perdere alla rete Bitcoin un buon 50% di potenza computazionale. Ne abbiamo parlato in un articolo che spiega come i miner cinesi abbiano di recente ripreso le attività nonostante il divieto, probabilmente senza mai arrestarsi veramente del tutto.
In entrambe le circostanze, abbiamo ancora una volta la dimostrazione di due aspetti, insiti nel DNA Bitcoin. Primo punto: non puoi fermare una rete che nasce per essere al sicuro da censure e attacchi anche da parte di governi finanziariamente corazzati. Il secondo aspetto riguarda il controverso rapporto tra attività di mining e sfruttamento delle risorse energetiche. In Russia, una delle farm chiuse nelle recenti operazioni traeva energia dall’adiacente centrale idroelettrica, che in condizioni operative di forte disavanzo intermittente ha costi pressoché nulli.
A tal proposito abbiamo intervistato Federico Rivi, che in meno di mezz’ora ci ha spiegato come le rinnovabili siano il motore ideale per le mining Farm, laddove la lungimiranza dei governi sia tale da coglierne le infinite opportunità.
Le ultime vicende di El Salvador, con i coloriti colpi di coda del presidente Bukele, stanno lì a dimostrarci che davvero basterebbe poco, per cogliere munifiche opportunità e sganciarsi quantomeno parzialmente dal giogo di lobby e finanza centralizzata.